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GLUTAMMATO: DAL PIATTO AL CERVELLO

Immagino che tutti i lettori conoscano il glutammato. È un esaltatore di sapidità, cioè una sostanza che rende gustosi i cibi a cui viene aggiunta. Ma come fa? Inganna il cervello. L’inganno venne scoperto più di cento anni fa dal chimico giapponese Kikunae Ikeda, il quale scoprì che, accanto ai quattro gusti noti, acido, amaro, dolce e salato, c’è un quinto gusto che battezzò con il nome giapponese di umami, che significa saporito. L’umami è stimolato dal glutammato monosodico. Negli ultimi cento anni, questo composto ha avuto un larghissimo impiego in cucina proprio per la sua capacità di rendere saporiti e appetitosi i cibi.

Per questo, negli alimenti pronti e nei ristoranti orientali di scarsa qualità se ne fa un gran uso, proprio per mascherare la povertà degli ingredienti. L’inganno è il seguente: la stimolazione dei recettori per il glutammato presenti nella lingua, nella bocca e anche nello stomaco e nell’intestino, dà la sensazione che il cibo ingerito sia ad alto contenuto proteico e quindi utile e piacevole. Il messaggio viene veicolato non solo dalla bocca ma anche dallo stomaco tramite il nervo vago che lo trasmette alle aree cerebrali che governano la fame e la sazietà, ma anche a quelle che governano le emozioni. Ma un ingerimento eccessivo di glutammato può produrre una sindrome, conosciuta come “sindrome da ristorante cinese”, con sudorazione profusa, cefalea, alterazione del ritmo cardiaco e anche svenimenti. Il glutammato è anche un fondamentale neurotrasmettitore: l’80% dei circuiti cerebrali funziona a glutammato, che è fortemente stimolato dallo stress. Adesso nei laboratori di psicofarmacologia si lavora per bloccare l’eccesso di glutammato nel cervello che si registra in molte malattie psichiatriche, tra cui anche la depressione. Operazione difficile e non priva di conseguenze negative. Ma, visto che è stimolato dallo stress e da una cattiva alimentazione, non sarebbe più economico e salutare agire in queste direzioni?

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