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La carne coltivata e la ricerca avanzata di Ivy Farm Technologies

Mentre in Italia si discute una legge probabilmente destinata alla bocciatura europea e certamente a non avere effetti se non quelli di allontanare dal Paese investimenti e ricerca e far arrivare ai consumatori solo prodotti realizzati all’estero, in molti altri Paesi la ricerca sulla carne coltivata procede velocemente, e il momento delle prime autorizzazioni e delle prime commercializzazioni sembra essere più vicino. Ne è un esempio Ivy Farm Technologies, azienda nata dall’Università di Oxford, che sta già producendo carne di maiale e di manzo Angus e Wagyu nei suoi impianti pilota. Stabilimenti che FoodNavigator è andata a visitare, pubblicando poi un video (in inglese) nel quale l’amministratore delegato Richard Dillon dialoga con il giornalista Oliver Morrison sugli aspetti tecnici e su quelli legati allo sviluppo.

La carne coltivata di Ivy Farm

Il procedimento è noto: si prelevano le cellule del muscolo o del tessuto adiposo dell’animale e si identificano al suo interno le cellule staminali (che rappresentano solo lo 0,001% del totale). Una volta isolate, le cellule crescono in bioreattori con opportuni brodi di coltura che contengono vitamine, sali minerali, amminoacidi, fattori di crescita e lipidi. Gran parte della ricerca attuale è finalizzata a ottenere nuovi mezzi di coltura. I primi utilizzati, infatti, erano quelli destinati agli utilizzi biomedicali, con livelli di purezza non necessari per la carne ed estremamente costosi.

Una volta ottenuta la polpa, si passa alla fase di lavorazione. L’obiettivo è dare alla carne la giusta consistenza e composizione, a seconda delle esigenze. Per esempio, la carne ottenuta può avere diverse percentuali di grasso, oppure contenere ingredienti vegetali. Il tutto richiede circa due settimane, contro i due anni che normalmente costituiscono il ciclo vitale di un animale come un bovino da carne.

La sostenibilità della carne coltivata

Per spiegare il livello di sostenibilità della carne coltivata, Dillon utilizza il parametro della conversione calorica, cioè quante calorie (dai mangimi) sono necessarie all’animale per produrne una (di carne). Per il manzo sono necessarie tra 25-50 calorie, per il maiale circa 15 e per il carne pollo servono 7 calorie per produrne una. Ivy Farm, nel suo impianto pilota, immette 3-4 calorie nei mezzi di coltura per produrre 1 caloria di carne coltivata, ma vuole arrivare a 2-3. Un bilancio che fa capire quali siano i vantaggi in termini di resa.

A questi si devono aggiungere quelli per la salute, dal momento che la carne coltivata non richiede l’aggiunta di antibiotici. Inoltre tutti gli ingredienti sono attentamente controllati e il rapporto tra i vari nutrienti è noto (e può essere modificato). A questo si sommano poi i benefici in termini di emissioni e consumo di risorse. Uno studio dell’Università di Delft attesta attorno al 90% la riduzione delle emissioni di gas serra e di consumo di suolo rispetto alla carne bovina, e attorno all’66% quella di consumo di acqua.

La strada per l’approvazione

Infine, dal punto di vista normativo, Ivy Farm ha già sottoposto i dossier di approvazione alla Food standards agency britannica (Fsa) all’inizio del 2023. Nel frattempo, sta parlando con la Food and drug administration statunitense (Fda) e con le autorità di Singapore. L’azienda punta a ottenere il via libera entro il 2024 negli USA e spera che le autorità britanniche siano altrettanto rapide. Il suo progetto prevede di produrre inizialmente per aziende già proprietarie di marchi e abituate a realizzare prodotti a base di carne, così come per alcuni ristoranti. In un secondo tempo, quando saranno pienamente operativi gli stabilimenti, si dovrebbe passare anche alla produzione diretta al consumatore.

Morrison ha assaggiato polpette a base vegetale, di carne tradizionale e di carne coltivata, faticando a distinguere le seconde dalle terze. La consistenza, per la carne coltivata, è leggermente più gommosa, perché mancano alcune tipologie di cellule presenti nella carne, ma il gusto è indistinguibile, secondo lui.

Il progetto RESPECTfarms

Un altro esempio di progetto in pieno svolgimento, anch’esso illustrato da un video, è quello di RESPECTfarms, lanciato con fondi strutturali europei (900mila euro) a inizio 2023. L’idea è sostenere la realizzazione di piccoli bioreattori direttamente negli allevamenti, in modo che tutto il ciclo sia a km zero e coinvolgendo gli allevatori nella transizione alimentare.

Il video racconta l’esperienza di un allevatore olandese che sta progettando, insieme a un’architetta e ad alcuni tecnici specializzati, la ristrutturazione della sua stalla. L’obiettivo è di ospitare, in una zona studiata ad hoc, una sezione per la produzione della carne coltivata con cellule provenienti dai suoi animali, senza macellarne nessuno. La priorità sarà data ovviamente all’igiene e alla sicurezza microbiologica. Tutto il processo sarà controllato, sostenuto da energia rinnovabile (solare) e a ciclo chiuso, perché gli animali saranno nutriti con vegetali prodotti in loco e anche i rifiuti sarebbero riutilizzati.

I partner di RESPECTfarms

Il consorzio RESPECTfarms comprende Mosa Meat, l’azienda fondata dal pioniere Mark Post, che per primo ha realizzato la carne coltivata, Priva, un’azienda leader nelle tecnologie agricole, insieme a Rügenwalder Mühle, un’azienda tedesca che da anni lavora sulle alternative alla carne, all’unione degli allevatori svizzeri Fenaco Genossenschaft, la banca cooperativa Rabobank e la Ong belga per i diritti degli animali Gaia. L’idea è quella di progettare e realizzare, nei prossimi 18 mesi, una serie di impianti pilota nei Paesi aderenti – Paesi Bassi, Germania, Belgio e Svizzera – per studiare la fattibilità ed eventuali criticità. 

Un approccio di questo tipo potrebbe incontrare meno opposizioni da parte degli allevatori rispetto a quanto non accada oggi con la carne coltivata e sarà molto interessante seguirne le sorti. Oltre agli aspetti legati alla sostenibilità, prevede una progettazione architettonica e tecnologica avanzata, e comporta, inevitabilmente, la nascita di competenze specifiche e di aziende dedicate, oltre a investimenti significativi. In altre parole, può essere un formidabile motore di sviluppo, senza fratture drammatiche con il sistema produttivo attuale. Sviluppo da cui l’Italia, se il decreto legge voluto dal ministro Lollobrigida fosse definitivamente approvato, potrebbe essere completamente esclusa, mentre cerca di mantenere artificiosamente in vita un sistema – quello degli allevamenti tradizionali – destinato a subire comunque un forte ridimensionamento.

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